Saper vivere

Io non so vivere.
Ero ancora ragazzo e sentii un apprezzamento rivolto ad una persona, che suonava più o meno così: “quello è uno che sa vivere”. La cosa mi preoccupò molto perché era del tutto diverso da me: era spigliato, abile, dava la sensazione di riuscire a cavarsela in tutte le situazioni; sembrava nulla lo potesse intimorire, meno che meno il suo prossimo. Era sicuro, consapevole. Mi feci forza, pensando – e cercando di convincere me stesso – che le cose sarebbero cambiate: sarei cresciuto, maturato. Ora sono diventato adulto e ancora non so vivere. Continuo ad esercitare il mio genetico impaccio di fronte a tutto e a tutti. Continuo a sentirmi inadatto, inadeguato, imbarazzato e imbarazzante. Forse lo sono, e forse non lo sono quanto credo di esserlo. Sta di fatto che l’immagine che ho di me è quella di uno che non esiterei a definire ‘disadattato’. E’ questa il termine più calzante. Un giorno, chi contribuì a mettermi al mondo, parlando di una persona che conoscevo molto bene, disse: “quello è uno pieno di complessi”. E stava parlando di uno che era come me. Nemmeno sulla famiglia potevo contare un granché, da questo punto di vista. Non c’era quindi più alcun dubbio. Ho vissuto nel tentativo continuo di cancellare la mia inaccettabile identità: a cosa poteva servire uno come me?, uno che non avrebbe mai raccolto una briciola di apprezzamenti, da nessuno. Iniziò così la fatica nell’intraprendere tutte le strade possibili per recuperare un incolmabile svantaggio: a scuola, nello sport, nella musica. Passare a scuola con una buona media o brillare nella partita di domenica rappresentavano il salvagente per tirare avanti. Era proprio quello che stavo facendo, ‘tirare avanti’, elemosinando stima ovunque, nel tentativo di colmare l’incolmabile, appassionandomi di mille cose per dimenticare la chiara realtà: la voragine era abissale. Altre volte cercavo di impersonare individui che mai avevo visto, cercando di acquisire dalle biografie le loro personalità vincenti, folgoranti. E pure i loro vizi: forse che fumo e alcool mi avrebbero aiutato a crescere? Ma io non ero Jack Kerouac, e nemmeno Bob Dylan, né qualsiasi altro. Gli anni passavano, insipidi, e la consapevolezza che nulla sarebbe cambiato peggiorava le cose: non ero più un ragazzo al quale si può concedere, per inesperienza, l’imbarazzo di fronte alla vita, ma ero un adulto, immaturo, sempre in ritardo nei confronti del tempo. Avrei molte volte desiderato di restituire la mia vita a chi me ne aveva fatto dono. Arrivai a toccare il fondo quando una situazione difficile mi rese ancora più estraneo al mondo in cui vivevo. Ero come un animale braccato, senza via di fuga. Allora ho cercato tutte le vie disponibili per uscire vivo da quell’inferno e ho ricevuto una sola risposta. Ave, Maria.
[intervento personale sul blog di Paolo Vites 'The Red River Shore']

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