La storia della salvezza – continuo tentativo del Padre di non perdere nessuno dei suoi figli – si compie e si manifesta pienamente nella Croce: “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani, ma sapienza di Dio” (Cor.). La Croce, vale a dire la manifestazione definitiva dell’amore di Dio. Croce e Amore, se scritti uno accanto all’altro sembra quasi si respingano, tanto sono lontane le immagini che rievocano nel cuore delle persone. La Croce è, infatti, ‘segno di contraddizione’: è contraddizione per due genitori sopravvivere alla propria figlia, donata loro dopo anni di suppliche ed è allo stesso modo contraddizione per tutti coloro che l’hanno vista crescere e l’hanno conosciuta, perché Chiara era un dono per chiunque la incontrasse. Ma Chiara era ‘di Cristo’, era cristiana, e Cristo stesso – per questa profonda amicizia, coltivata ogni giorno da Chiara – l’aveva resa partecipe del suo segreto. La croce è una tale contraddizione per l’uomo, prediletta creatura resa cieca e paralitica dal peccato originale, da poter esser svelata e compresa solamente per mezzo dello Spirito di Dio e con una grazia particolare: accessibile a tutti, ma senz’altro particolare. Nel mondo si incontrano molte cose ‘buone’: solidarietà, fratellanza, amicizia, gioia, ecc… apprezzabili da chiunque, credenti e non, ma Dio ha tenuto per se la chiave per comprendere il significato dell’esistenza dell’uomo; una chiave così preziosa da poter essere rivelata solamente al proprio Figlio, il Salvatore, e a chiunque appartenga al Figlio stesso. Ma l’uomo è incapace di capire Dio. La creatura non ha accettato le scelte ‘scomode’ del Padre e si è costruito la figura di un Padre buono ma ‘ideale’, che allontana dolore e sofferenza più che partecipare ad essa ed aiutare ad entrarvi; un Padre che se ne sta nel suo cielo e che all’occorrenza lo si può chiamare per risolvere i più o meno grossi problemi di chi lo invoca. La realtà è che l’uomo può incontrare – nel senso più stretto del termine – il suo Creatore proprio nella Croce. Se un cristiano ‘crede’, non può rinunciare a questa verità, per quanto scomoda possa sembrare. Quando i pastorelli di Fatima chiedevano di guarire le persone che si raccomandavano alla Vergine Maria, lei non diceva sempre ‘sì’ ma spesso rispondeva ‘non ancora’, come se non fosse ancora giunto per tutti il tempo della santificazione e che la sofferenza che stavano passando rappresentasse la necessaria purificazione, e come se l’anima potesse ‘sopportare’ la vista di Dio solamente se purificata. Una purificazione – soprattutto spirituale – a cui vanno inoltre soggette tutte le anime che iniziano il lungo viaggio e cercano perciò di avvicinarsi a Dio. «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es). Se si crede veramente all’amore di Dio, non si può allora non credere che il Padre farà l’impossibile per sostenere la sua creatura nella sofferenza. Chiara ne rappresenta un rilucente esempio: come è possibile non credere che Chiara avesse Gesù Cristo al suo fianco? Lo sguardo di Chiara è lo sguardo di un amore che non ha paragoni, un amore senza confini.
Il tempo di Chiara
“So che il tempo è un dono di Dio, so che ogni ora del giorno è una monetina da spendere con giudizio e con bontà.” [1979]
“Riflettendo ci accorgiamo che spesso l’uomo non vive la sua vita, perché immerso in tempi che non esistono: o nel ricordo o nel rimpianto… In realtà… l’unico tempo che l’uomo possiede è l’attimo presente che va vissuto interiormente sfruttandolo appieno. Vivendo così certamente l’uomo si sente libero perché non è più schiacciato dall’angoscia del suo passato e dalle preoccupazioni per il suo avvenire.” [1989]
A diciotto anni, Chiara approfondisce un argomento che già dieci anni prima aveva trattato con una maturità insolita per una bambina della sua età; parla del rischio di una vita non vissuta, di ricordi, rimpianti, e di un’unica chance per possedere pienamente il proprio tempo: viverlo interiormente. A otto anni aveva scritto ‘con giudizio e bontà’, a diciotto ‘interiormente’: la sostanza è la stessa; nell’adolescenza Chiara non è solamente una bambina ispirata divenuta maggiorenne, ma è una creatura che nel corso degli anni non ha mai abbandonato quella strada e ora, nella malattia, sta raccogliendo quei frutti che le permettono di vivere interiormente la propria vita e di portare, ogni giorno, la sua croce. Alla fresca e pura innocenza di una bambina, si manifesta, progressivamente, una consapevolezza sorprendente. Ciò che traspare negli ultimi anni ha poco a che vedere con ‘educazione’ o ‘insegnamento’ (comunque importanti), ma è invece molto più vicino a qualcosa che si può definire, appunto, ‘frutto’. Quello che si manifesta in Chiara sembra il risultato di un abituale e personale incontro con il suo Maestro: vive, così, il suo tempo. Rinunciare a vivere il tempo presente e a combattere ogni giorno per questo fine significa perdere il fondamento stesso del vivere pienamente; se questo accade, si crea un vuoto nella propria esistenza e quindi la necessità di fuga: nel rimpianto del passato o nella preoccupazione del futuro. Chiara era discreta, non ostentava la propria fede, ma ha in questo modo corrisposto alla grazia ed è così divenuta lei stessa testimone, in particolare durante quei drammatici 25 minuti durante i quali, di fronte al peso della croce, ha raccolto tutte le sue forze per porgere al Signore il suo dolore. Ha quindi alzato e rivolto il viso verso la madre, dicendole: «Se lo vuoi tu Gesù, lo voglio anch’io». Era pronta.
Saper vivere
Ero ancora ragazzo e sentii un apprezzamento rivolto ad una persona, che suonava più o meno così: “quello è uno che sa vivere”. La cosa mi preoccupò molto perché era del tutto diverso da me: era spigliato, abile, dava la sensazione di riuscire a cavarsela in tutte le situazioni; sembrava nulla lo potesse intimorire, meno che meno il suo prossimo. Era sicuro, consapevole. Mi feci forza, pensando – e cercando di convincere me stesso – che le cose sarebbero cambiate: sarei cresciuto, maturato. Ora sono diventato adulto e ancora non so vivere. Continuo ad esercitare il mio genetico impaccio di fronte a tutto e a tutti. Continuo a sentirmi inadatto, inadeguato, imbarazzato e imbarazzante. Forse lo sono, e forse non lo sono quanto credo di esserlo. Sta di fatto che l’immagine che ho di me è quella di uno che non esiterei a definire ‘disadattato’. E’ questa il termine più calzante. Un giorno, chi contribuì a mettermi al mondo, parlando di una persona che conoscevo molto bene, disse: “quello è uno pieno di complessi”. E stava parlando di uno che era come me. Nemmeno sulla famiglia potevo contare un granché, da questo punto di vista. Non c’era quindi più alcun dubbio. Ho vissuto nel tentativo continuo di cancellare la mia inaccettabile identità: a cosa poteva servire uno come me?, uno che non avrebbe mai raccolto una briciola di apprezzamenti, da nessuno. Iniziò così la fatica nell’intraprendere tutte le strade possibili per recuperare un incolmabile svantaggio: a scuola, nello sport, nella musica. Passare a scuola con una buona media o brillare nella partita di domenica rappresentavano il salvagente per tirare avanti. Era proprio quello che stavo facendo, ‘tirare avanti’, elemosinando stima ovunque, nel tentativo di colmare l’incolmabile, appassionandomi di mille cose per dimenticare la chiara realtà: la voragine era abissale. Altre volte cercavo di impersonare individui che mai avevo visto, cercando di acquisire dalle biografie le loro personalità vincenti, folgoranti. E pure i loro vizi: forse che fumo e alcool mi avrebbero aiutato a crescere? Ma io non ero Jack Kerouac, e nemmeno Bob Dylan, né qualsiasi altro. Gli anni passavano, insipidi, e la consapevolezza che nulla sarebbe cambiato peggiorava le cose: non ero più un ragazzo al quale si può concedere, per inesperienza, l’imbarazzo di fronte alla vita, ma ero un adulto, immaturo, sempre in ritardo nei confronti del tempo. Avrei molte volte desiderato di restituire la mia vita a chi me ne aveva fatto dono. Arrivai a toccare il fondo quando una situazione difficile mi rese ancora più estraneo al mondo in cui vivevo. Ero come un animale braccato, senza via di fuga. Allora ho cercato tutte le vie disponibili per uscire vivo da quell’inferno e ho ricevuto una sola risposta. Ave, Maria.
[intervento personale sul blog di Paolo Vites 'The Red River Shore']
Ma liberaci dal male
Perché cercate tra i morti colui che è vivo?
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” – Gesù di Nazareth
[...] nessuno può in questa vita appagare pienamente i suoi desideri, né alcuna cosa creata è in grado di colmare le aspirazioni dell’uomo. Solo Dio può saziarlo, anzi andare molto al di là, fino all’infinito. Per questo le brame dell’uomo si appagano solo in Dio, secondo quanto dice Agostino: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace fino a quando non riposa in te».
I santi, nella patria, possederanno perfettamente Dio. Ne segue che giungeranno all’apice di ogni loro desiderio e che la loro gloria sarà superiore a quanto speravano. Per questo dice il Signore: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25, 21); e Agostino aggiunge: «Tutta la gioia non entrerà nei beati, ma tutti i beati entreranno nella gioia. Mi sazierò quando apparirà la tua gloria»; ed anche: «Egli sazia di beni il tuo desiderio». Tutto quello che può procurare felicità, là è presente ed in sommo grado. Se si cercano godimenti, là ci sarà il massimo e più assoluto godimento, perché si tratta del bene supremo, cioè di Dio: «Dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 15, 11).Dalle «Conferenze» di san Tommaso d’Aquino, sacerdote.
Il sorriso di Chiara